25 Febbraio 2019
Missione medico/scientifica in Madagascar II
Cari amici,
è sempre più difficile far stare in una newsletter tutte le cose che succedono qui. Da quando vi ho scritto l’ultimo aggiornamento mi sembra passata un’era geologica…il nostro “mese tra le spine” è stato un tarta-safari bizzarro, fatto di alloggi e pasti di fortuna, tutto condito dalle stranezze tipiche malgasce. Un autista diverso, con un accompagnatore diverso, a bordo di un 4X4 diverso da quelli dell’accordo preso il giorno precedente, sono stati abbastanza puntuali nel venirci a prendere la mattina successiva ad Anakao, direzione sud. Mentre le sospensioni malmesse del fuoristrada ci cullavano convulsamente fino alla prima tappa, Ambola, ci chiedevamo se visitare l’adiacente parco nazionale di Tsimanampetsotsa, a parte farci slogare la lingua per pronunciarlo, ci avrebbe finalmente permesso di ammirare le prime testuggini selvatiche in natura. Il nostro amico Miguel Pedrono ci aveva parlato molto bene della riserva, soprattutto conoscendo i nostri gusti…impossibile smentirlo. Già mentre facevamo il primo tratto in macchina abbiamo iniziato a fermare il fuoristrada perché tra gli arbusti spuntavano le prime Pyxis arachnoides arachnoides, che Ago si prostrava a fotografare da angolazioni impossibili. Con non poca fatica la guida del parco, Nicolà, ci ha convinti a proseguire per continuare il nostro piccolo master in “baobab monumentali”. Dopo aver costretto Nicolà a scrivere (male) i nomi scientifici di diverse specie di piante endemiche, ci siamo diretti al grande lago salato che dà il nome alla riserva per intravedere, in lontananza, un gruppo di fenicotteri rosa che lo zoom della macchina fotografica regolato al massimo ha trasformato in un paio di scatti impressionisti. La cosa più bella è stato il percorso: visto che ci trovavamo in pieno, durissimo plateau calcareo, ci siamo visti venire incontro diversi imponenti maschi di Astrochelys radiata che sfruttavano la nostra stessa pista di sabbia per spostarsi poco prima del crepuscolo, forse in cerca di femmine recettive, in una luce meravigliosa e con dei Pachypodium giganteschi sullo sfondo: sublime! Il fatto che perdessimo tanto tempo a fotografare le nostre beniamine ci ha fatto rinunciare a una tappa già pagata del parco, ovvero il belvedere, ma, dopo aver visto i Lemur catta andare a dormire in una grotta in mezzo a un tripudio danzante di pipistrelli (Pterupous rufus) grandi come cincillà, abbiamo compensato la tappa mancante facendo abbastanza tardi da dover uscire dalla riserva col sole abbondantemente tramontato; così, mentre il fuoristrada avanzava nel buio illuminando di tanto in tanto, sui rami più declivi degli alberi, camaleonti addormentati che sembravano addobbi natalizi catarinfrangenti, siamo riusciti ad avvistare due diversi esemplari di Galidictis grandidieri, una specie di “mangusta” che vive solo nel paraggi della riserva. Per me, che sono innamorato di tutti i piccoli carnivori, un’emozione immensa.
L’indomani (17 gennaio) ad Ambola beach il mare si incaponiva contro la vicina barriera corallina, facendo dei coreografici sbuffi del buongiorno, prima che noi risalissimo sul nostro traballante mezzo per raggiungere Itampolo. Lungo il tragitto ci aspettava il lato simpatico dei locali Antandroy (“abitanti della foresta di spine”), che, a dispetto della loro atavica piromania, e della loro fissa per propagare i cactus all’infinito per poi bruciacchiarli e farne foraggio per il bestiame, considerano ancora “Fady” (ovvero tabù) le tartarughe, e infatti abbiamo incontrato prima una fiorente colonia di Pyxis arachnoides arachnoides che prospera tra gli escrementi degli zebù, e poi abbiamo smesso di contare e fotografare le A.radiata perché ce n’erano troppe! Da Itampolo verso sud la pista era off-limits perché i fiumi Linta e Menarandra erano in piena, e visto che i diluvi all’orizzonte ci impedivano anche la risalita verso nord, abbiamo passato due giorni a escursionare in mezzo alle spine in compagnia delle immancabili A.radiata, approfittando per raccogliere le prime piante da portare nel parco di Mahajanga. Per raggiungere il nostro obiettivo finale abbiamo dovuto battere sul tempo le piogge e partire alle 4 di mattina per tre giorni consecutivi, attraversare più a monte il fiume Linta (che nel frattempo aveva fatto 7 morti), risalire verso Ampaniy e ridiscendere verso sud-est passando per la “route nationelle”, una lunga lingua di fango rosso che serpeggia tra spine autoctone e alloctone, con sparute squadre di giovani locali appostati nei passaggi più difficili che sperano di ottenere una ricompensa per disincagliare qualche mezzo sfortunato o che chiedono un pedaggio per aver creato una deviazione di fortuna a colpi di coup-coup (coltellacci simil-machete) nei punti assolutamente inaccessibili. In prossimità delle pozzanghere più grandi abbiamo finalmente scoperto l’utilità del secondo autista: camminare nell’acqua e fare da metro umano per far valutare al conducente la profondità dell’acqua e scegliere la miglior traiettoria per non restare incagliati nel fango. Dato che neanche la carrozzaria era la fine del mondo, si era costretti, dopo i guadi più profondi, ad aprire gli sportelli per far defluire l’acqua fangosa che inevitabilmente ci finiva sui piedi. Dopo una serie infinita di guadi, derapate, strade sbagliate e una gomma forata e prontamente cambiata, il 21 gennaio siamo arrivati a Lavanono, dove il mare ci ha regalato lo spettacolo assoluto di un gruppo di bambini-surfisti che, non fosse stato per la nostra insistenza nel chiamarli, sarebbero rimasti a cavalcare entusiasti le onde, coi loro pezzi di piroga raccattati qua e là, fino al giorno successivo. La loro foto in posa come dei professionisti con le loro tavole di fortuna riassume uno dei momenti più belli di tutto il viaggio.
L’indomani a Faux Cap l’Oceano Indiano ci accoglieva con delle onde gigantesche che, cozzando contro la barriera, producevano degli spruzzi impressionanti e un po’sinistri. La stanchezza fisica iniziava a farsi sentire, l’acqua corrente continuava a mancare, le avarie del 4X4 aumentavano, il vento montava; la proprietaria dell’hotel, dopo averci convinto a prendere un bungalow col tetto bucato, parlava senza scomporsi di un ciclone in arrivo che sarebbe durato una o più settimane, delle Pyxis arachnoides oblonga nessuna traccia nonostante una lunga escursione con un piede dolorante…insomma, sono arrivato a dire ad Ago “Oggi ho capito che non torneremo mai più a casa”. Per fortuna il clima malgascio è variabile almeno quanto il mio umore e il giorno successivo siamo partiti ancora una volta alle 4 per arrivare in tempo utile Cap Saint Marie. Nella riserva speciale un cielo limpido e un vento molto più benevolo di quello del giorno prima ci hanno accompagnato nel fotografare decine di A.radiata al pascolo su una scogliera a picco sull’oceano, in mezzo a piante nanizzate dalle particolari condizioni ambientali e che non superano i 40 cm di altezza: un sogno!
Nell’uscire dalla riserva ci siamo fermati per più di un’ora in un tratto più classico di foresta spinosa, dove siamo riusciti a trovare e fotografare anche le P.a.oblonga. Missione compiuta.
Dopo aver visto tante meraviglie ed aver appurato che nessun uragano tropicale ci avrebbe colti, il viaggio di ritorno verso Tulear, nonostante nessun effettivo aumento di comfort, è stato una traballante passeggiata. E poi lì ci aspettava un vivaio di spettacolari piante endemiche, didieracee, euphorbiacee e anacardiacee, di cui abbiamo fatto incetta caricando all’inverosimile la macchina di Ago. Certo, c’è stata una piccola avventura che ha visto come protagonisti il nostro 4X4, una montagna di fango e un compenso di 30000 ariary (circa 7,5€) a chi ha disincagliato l’uno dall’altra, ma è stato talmente ben documentato che preferisco aggiungerlo alla lunga lista di particolari, incontri e personaggi, che sarà più facile raccontare durante il reportage integrale a Cesena, durante il TARTARUGHE BEACH. Fatto sta che, attraversati nuovamente i freddi altipiani centrali, siamo di nuovo al lavoro nel TORTUES MADA PARK di Mahajanga. Dopo aver messo a dimora le piante e aver finalmente iniziato con campionamenti e analisi al microscopio, io e Ago siamo proiettati verso un’altra missione nella missione che ci attende da qui a pochi giorni. Stay tuned…
Dr Aquaro Vincenzo – Medico Veterinario
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